Petrova, la Bulgra

Petrova era bulgara e, all’inizio, anche lei ha dovuto reimparare a vivere tra la gente e in una casa, cosa che non le riuscì mai perfettamente. 

Non le riuscì – ho il sospetto che neanche ci provò – di abbandonare una serie di espressioni triviali, seguite da ammiccamenti osceni, con cui apostrofava chiunque gli venisse a tiro – fossero laici, clerici o religiose – e neanche volle comprendere l’imposizione tassativa che, malgrado sforzi congiunti di volontari, badanti e responsabili, vigeva nella casa che l’aveva accolta: “nel reparto donne comanda Loretta!”. Fu poi una malattia degenerativa che l’aveva privata sia della parola che della maggior parte della mimica facciale – con nostro sommo sollievo – ad esonerarla sia dal vessare il prossimo malcapitato con il suo interloquire non proprio da salotto, che dalle faide di potere in cui era invischiata. Stavolta però c’eravamo tutte quando è nata all’altra vita. La liturgia delle ore di quella mattina ci aveva offerto il passo di Giobbe “nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò”. È stata accompagnata dalle nostre preghiere insieme a quelle della badante musulmana e la morte, davvero, è sembrata meno terribile, più naturale e poi, dopo aver fatto tutto quello che si poteva fare, soprattutto la tenevamo per mano. C’era Dio in quella stanza, c’era un mistero grande e si capiva che non finiva tutto lì; che per Petrova, come per Loretta, come per tutti noi, non finisce tutto lì. Non ci dissolviamo nel niente per finire a vivere solo nel ricordo e nelle lacrime. Continueremo a vivere per davvero anche se non sappiamo come.

“Casa Betania delle Beatitudini”
Casa madre dell’Opera Fratel Ettore

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